Ad limina

L'identità sospesa
delle seconde generazioni

Ad lìmina è una locuzione latina.
Letteralmente traducibile con “alle soglie”, indica una posizione di stallo, di equilibrio precario.

È la situazione di più di un milione di minorenni che abita in Italia senza cittadinanza, divisi tra la cultura del Paese d’origine dei loro genitori e il Paese nel quale crescono.
Si tratta di soggettività che risultano poco rappresentate e tutelate, dato che la concessione della cittadinanza, che attribuirebbe pari dignità e diritti a tutte le nuove generazioni, è ancora ferma alla legge n.91 del 5 febbraio 1992, ormai troppo lontana nel tempo per poter rispecchiare l’attuale composizione demografica dettata dai diversi flussi migratori degli ultimi venti anni.

L'Italia di oggi

Nel 2022, secondo la Fondazione Ismu, le persone straniere che hanno acquisito la cittadinanza in Italia sono aumentate quasi del 10% rispetto al 2021. Nel 2020 si stima che le persone straniere di nascita che hanno acquisito la cittadinanza italiana siano oltre 1 milione 500 mila.
In Italia, la popolazione è attualmente così suddivisa.




Nel 2022 sono stati rilasciati 449.118 permessi di soggiorno, una cifra che non si registrava da oltre 10 anni.
La crisi ucraina, con la concessione di quasi 148mila nuovi permessi per protezione temporanea, ha contribuito all’incremento. Si è trattato di una situazione straordinaria che ha segnato gli scenari migratori in tutta Europa, con l’arrivo di flussi costituiti in prevalenza da donne e bambini.
Crescono anche i permessi per lavoro e quelli per studio. Questi ultimi registrano un picco di oltre 25mila unità, dato che non si registrava dal 2013. La collettività ucraina, superando quella cinese, si colloca attualmente al primo posto. Si tratta, in questo caso, di migranti che cercano riparo nel nostro Paese.
La situazione per le seconde generazioni è più complessa.

Quanti si sentono italiani tra le seconde generazioni?

In un Paese in cui lo Ius Soli non è presente, è importante osservare l’esistenza di quasi un milione di minorenni senza cittadinanza, di cui il 67% sono nati qui. Risulta subito chiaro il paradosso dell’essere considerato straniero legalmente anche quando sin dalla nascita o fin dalla giovane età si condividono gli stessi codici culturali, linguistici e sociali dei propri compagni di classe.
È proprio a causa di questa spaccatura legale che le seconde generazioni si ritrovano in bilico, in un purgatorio senza identità.
Secondo dei dati raccolti dall'ISTAT, il 37,8% di loro si sente italiano, mentre il 33% straniero. La restante parte, il 29,2% non sa come sentirsi.

Ma come funziona la cittadinanza italiana per le seconde generazioni?

I ragazzi di seconda generazione possono richiedere la cittadinanza una volta compiuta la maggiore età.
Per tutta la durata di questi diciotto anni di permanenza, le istituzioni italiane non riconoscono i nati da immigrati come italiani, ma come stranieri. Si potrebbe argomentare che il riconoscimento avviene in concomitanza con l’inizio dell’esercizio del diritto di voto. Tuttavia in questo modo, si prende in considerazione solo una delle dimensioni della cittadinanza, cioè quella inerente alla partecipazione politica, mentre vengono lasciate fuori le altre due: quella giuridica (titolarità di diritti) e quella psicologica (identità e sentimento di solidarietà). Viene dunque negata per un lungo periodo di tempo alla seconda generazione la piena appartenenza alla comunità: cittadino è colui che è “visibile”, che si manifesta assieme agli altri membri della comunità nello spazio pubblico. Colui che è ancora senza diritti invece è “invisibile”. Seppur vivano e si muovano in mezzo agli italiani per i loro primi anni di vita, sono trattati formalmente come se non esistessero, proprio nell’età segnata dal bisogno di essere “visti”, riconosciuti, accolti in una rete entro cui formare legami che fungano da primi appigli per radicarsi nel mondo.

Fatou, storia di un'identità ritrovata

Fatou Sokhna è diventata italiana con un daje.

Il 22 aprile 2013 è una giornata come tante. Lei, però, si trova davanti all’impiegata  responsabile delle pratiche per la cittadinanza. Quando le viene detto che tutti i documenti sono a posto non riesce a trattenersi, curva le labbra in un sorriso, ma non abbastanza in fretta per impedire a quel daje di sfuggirle. Esulta con entusiasmo, spezzando la monotonia tipica dell’ufficio. 

Non è un’esclamazione strana per lei, che a Roma ci è nata, precisamente nel quartiere di Piazza Vittorio. La sua cadenza rivela la sua romanità, fa entrare chi le rivolge la parola in confusione. «Come parli bene l’italiano» è una delle affermazioni che le dicono più spesso. Il colore della sua pelle sembra cozzare con l’accento di Roma agli occhi degli altri, ma a risvegliarli dallo spaesamento ci pensa sempre lei, che toglie ogni dubbio.
«Sono afroromana», dice. «È così che mi sento. Afroitaliana sì, ma anche afroromana. Sono nata a Roma. A casa parlo Wolof con mia madre e fuori casa romano con gli amici. Afroromana è una definizione che riflette un mix di identità che vivo nella città in cui sono cresciuta. Non sono solo italiana, non sono solo senegalese, sono una donna nata in uno dei quartieri più multiculturali della città».

La storia di Fatou è stata raccontata in un cortometraggio dal titolo “Io sono Fatou” dal regista italo-egiziano Amir Ra. La sua vicenda è quella di circa un milione di ragazzi, che vive in Italia in attesa di poter richiedere la cittadinanza.


«Ci ho impiegato sedici anni a capire che cosa fosse quella sensazione di fastidio che mi colpiva ogni volta in cui mi chiedevano di dove sei?. Non tanto per la domanda in sé, ma perché ogni volta che rispondevo “di un paese in provincia di Brescia, di Flero, italiana, della Lombardia, del Nord Italia”, la domanda fredda, diretta e senza sconti che arrivava subito dopo è sempre stata un’altra. Quasi uguale, ma più sottile: Sì, ma di dove sei veramente?».

La citazione è tratta da “E poi basta. Manifesto di una donna nera italiana” di Esperance Hakuzwimana Ripanti, che nel suo libro racconta di sé e della sua storia da donna nera italiana.

L’apparente curiosità di chi percepisce la persona nera che ha davanti a sé come “straniera”, “immigrata”, o più in generale come “altro”, è qualcosa di molto più profondo di quello che sembra. Si tratta dello specchio di una percezione che risente del razzismo insito nella nostra società, difficile da riconoscere e dunque da superare. È una domanda che dà per scontato l’alterità, chiudendo la persona davanti a sé in un immaginario predefinito e stereotipato, e non da spazio alla possibilità che chi ha la pelle nera o tratti somatici esteri sia italiano. È una domanda che spesso viene fatta a chi fa parte seconda generazione migratoria, sia a chi ha avuto la fortuna di essere legalmente riconosciuto come cittadino italiano sin dalla nascita (perché con uno dei due genitori italiano o perché adottato), sia a chi dopo anni di trafile burocratiche ha conquistato la cittadinanza.

Agli occhi della maggioranza si resta stranieri, simili per lingua e cultura, ma non abbastanza, comunque diversi nei caratteri “esotici”. Marchiare gli italiani di seconda generazione come stranieri toglie voce e legittimità, pone una fascia sempre più numerosa di popolazione in secondo piano davanti alla necessità di essere rappresentati e di riconoscersi come parte di un Paese in cui hanno passato probabilmente tutta la loro vita, o quasi, ma che non li identifica come parte di sé. La narrazione mediatica mette in evidenza i rischi di questa visione miope della realtà complessa in cui viviamo.

Quella che si viene a creare è una situazione nella quale le seconde generazioni vanno ad occupare una sorta di limbo identitario dal quale non riescono a uscire: si ritrovano a diciott’anni a non venir riconosciuti dal resto della popolazione come parte del tessuto sociale avente gli stessi diritti degli altri. Una situazione dove le seconde generazioni non si riconoscono in nessuna delle due anime che compone la propria identità, sfociando in una totale lontananza dalla propria cultura d'origine ma sentendosi esclusi dal contesto sociale del paese dove si è cresciuti. In questo modo, i figli di stranieri nati in Italia cadono in questo limbo, che sfocia in una ghettizzazione sia rispetto alle istituzioni che rispetto al resto della popolazione.

È necessario guardare i figli di immigrati con occhi diversi, leggere le loro storie, per educarsi e per superare un razzismo che si infiltra nella nostra quotidianità al punto da sembrare invisibile.

A poster of Kellar levitating a woman in a red dress

Copertina del libri "E poi basta" di Esperance Hakuzwimana Ripanti

Copertina del libri "E poi basta" di Esperance Hakuzwimana Ripanti

A poster of Kellar levitating a woman in a pink dress

Foto della scrittrice Esperance Hakuzwimana Ripanti

Foto della scrittrice Esperance Hakuzwimana Ripanti

Le seconde generazioni fanno parte del tessuto
capillare della nostra società.

Spin Time Labs è uno spazio che ospita un centro di cultura e accoglienza, con all'interno 160 nuclei familiari in emergenza abitativa. All'interno del palazzo, i vari servizi messi a disposizione sono frequentati una pluralità di persone.

Spin Time Labs è un esempio di come si possa evitare la ghettizzazione se persone di nazionalità diverse convivono e si aiutano a vicenda.

Ventiquattro diverse etnie condividono un palazzo che oggi è un esempio di rigenerazione urbana. Si tratta di «’na dozzina de religgioni» che dimostrano l'importanza dell'integrazione e della solidarietà.

Rappresentare le nuove generazioni

La mancanza di rappresentazione è ormai un problema costante nel dibattito pubblico sul cinema, per quanto a Hollywood, secondo l’UCLA, si siano fatti enormi progressi soprattutto sulla rappresentazione femminile e degli afro-americani.
A parlare del problema della rappresentazione sono
due registi di seconda generazione

AMIR RA

È un regista e direttore della fotografia italiano di origini egiziane, nato nel 1987. Ha iniziato i suoi studi a Milano, dove ha vissuto. Nella città del Cairo ha frequentato l'Accademia Internazionale di Scienze della Comunicazione, specializzandosi in Cinematografia. In Italia ha lavorato con il direttore della fotografia Marco Onorato, vincitore di un David di Donatello e di un Oscar europeo per la fotografia di “Gomorra” di Matteo Garrone.

Attualmente collabora alla realizzazione di programmi televisivi per la Rai, commercials e video musicali.

Mohamed Hossameldin

Mohamed Hossameldin è un regista italo-egiziano. Inizia lavorando come operatore video per le emittenti Mediaset e Sky.
Nel 2011 si iscrive alla RUFA -Rome University of Fine Arts, dove si laurea nel 2014. Nel 2015 dirige il cortometraggio “Sotto Terra”, selezionato a numerosi festival tra cui il Giffoni Film Festival, il Festival del Cinema Europeo e vincitore di diversi premi.

Puoi ascoltare la loro testimonianza qui:

Nuove generazioni, nuove espressioni


Strettamente legato al discorso della rappresentazione, è il problema della lingua.
L’uso quotidiano che facciamo del linguaggio è malleabile, mutevole: i termini nascono con un significato ben preciso ma col tempo si caricano di accezioni ben diverse da quelle che avevano in origine. Per questo motivo è naturale porre l’attenzione di chi legge anche sulla questione linguistica, nella speranza di aumentare la consapevolezza relativa all’uso del nostro parlato giornaliero.
In questo video vengono analizzati alcuni termini relativi all'ambito delle migrazioni, con il supporto di Scomodo, ColorY* e Italiani Senza Cittadinanza